Nel dibattito sui Pitbull in Italia si alternano paura e difesa d’ufficio, riporta Vanity Fair. Gli episodi di cronaca hanno acceso i riflettori su due nodi: gestione privata talvolta incauta e assenza di regole specifiche per razze e “simil-razze” da presa.
L’istruttore cinofilo Michele Caricato spiega perché parlare solo di “colpa del proprietario” o solo di “razza pericolosa” è riduttivo: il problema è più complesso e chiama in causa selezione, responsabilità e politiche pubbliche.
Perché accadono certi incidenti?
Secondo Caricato, quando una razza è riconosciuta e sottoposta a selezione ufficiale, i riproduttori vengono testati anche sul piano dell’equilibrio e della capacità di autocontrollo. Questo, storicamente, non è avvenuto per i Pitbull, che non sono una razza riconosciuta in Italia, e che in passato sono stati talvolta selezionati per performance di “presa” e ritenzione del morso, riducendo di fatto i freni inibitori. In caso di incidente, la gestione può così diventare più difficile rispetto ad altre razze “da lavoro”.
Il confronto con l’American Staffordshire Terrier (Amstaff), razza riconosciuta e “lavorata”, aiuta a capire: dove esiste selezione ufficiale, i casi di criticità si riducono, pur rimanendo necessaria una gestione consapevole.
Regole che mancano (e la pressione sociale)
L’Organizzazione Internazionale Protezione Animali (OIPA) chiede da tempo una regolamentazione della detenzione di determinate razze o simil-razze, denunciando anche cessioni e vendite incauta di “cani da presa”, spesso provenienti da cucciolate casalinghe o traffici illeciti.
In parallelo, molti proprietari reagiscono alla “fama” del Pitbull cercando di dimostrare che il loro cane è socievole, sottovalutando però gestione, autocontrollo e contesti. Il risultato è una miscela rischiosa di moda, improvvisazione e assenza di filtri nella filiera.
Il patentino e cosa fanno gli altri Paesi
Alcune città italiane — Milano in testa — hanno introdotto il patentino per i “cani speciali”. Non è un addestramento operativo, ma uno strumento di consapevolezza: far capire che con certe tipologie serve una gestione oculata, continua e responsabile. L’istruttore che abbiamo citato, inizialmente scettico, ne riconosce oggi l’utilità come primo passo educativo.
All’estero, il quadro è spesso più rigido: in Germania il possesso e perfino il transito con alcune razze richiede permessi speciali; in Francia esistono patentini stringenti; nel Nord Europa molte tipologie da presa sono vietate. L’elemento comune è una cultura cinofila diffusa e un controllo di filiera che evita improvvisazioni e “mode” pericolose.
Dalla selezione all’ENCI: la via italiana possibile
In Italia chiunque, di fatto, può “allevare Pitbull”, perché manca pedigree e quindi una selezione vincolante. Proprio qui potrebbe intervenire l’ENCI, estendendo protocolli e test comportamentali anche agli allevatori di cani non riconosciuti, per costruire linee più equilibrate. L’esempio virtuoso non manca: l’Akita Inu, arrivato trent’anni fa con una forte componente di combattività, è stato “normalizzato” grazie a un lavoro di selezione condiviso tra allevatori, generazione dopo generazione.
È la prova che una filiera responsabile può cambiare la storia di una tipologia.
Bambini, cani e miti da sfatare
Un altro messaggio forte riguarda la convivenza con i bambini. L’immaginario dei cartoni suggerisce che “tutti i cani giochino con i piccoli”, ma la prudenza deve venire prima di tutto: alcune razze sono selezionate da generazioni per la pet therapy e l’interazione infantile, altre no.
Pensare che “basterà l’amore” per rendere socialissimo qualunque cane è un errore potenzialmente grave. Meglio scegliere il compagno giusto per il proprio contesto familiare e investire sulla prevenzione: educazione, gestione e rispetto dei limiti.